Una sera d'ottobre
“Una sera d’ottobre”, ascolti alle stelle perché? L’Italia è la culla del Melodramma
Valeria Panzeri 20/10/2009
Ammetto che è arduo non cedere alla tentazione di analizzare sardonicamente la mini serie “Una sera d’ottobre” . Però una vocina dentro di me, che ho deciso di ascoltare, mi ricorda che non tutto è facile come sembra. Così mi sovviene la reazione che, al secondo anno di università, tutta l’aula ha avuto quando il […]
Ammetto che è arduo non cedere alla tentazione di analizzare sardonicamente la mini serie “Una sera d’ottobre” . Però una vocina dentro di me, che ho deciso di ascoltare, mi ricorda che non tutto è facile come sembra.
Così mi sovviene la reazione che, al secondo anno di università, tutta l’aula ha avuto quando il professore ci ha raccontato la trama de “La signora delle Camelie” tramutato poi nel libretto de “La traviata” di Giuseppe Verdi. Quando l’esimio docente ci ha raccontato questa storia strappalacrime in cui lei, misera e bellissima prostituta, si innamora di un giovane perbene ma viene osteggiata dalla famiglia di quest’ultimo, a causa dell’onta che tale unione avrebbe arrecato al loro buon nome, in aula cominciavano a udirsi bieche risatine. Ma il vero botto l’abbiamo fatto alla fine del racconto, quando scopriamo che Violetta alias Margherita muore drammaticamente di tisi gridando il nome del suo amato che, come un babbocchio, si è fatto fregare dai genitori.
E noi giù a ridere come dei porci mentre il professore, basito, ci osserva costernato. “Siete dei mostri” ci ha detto, ha appoggiato il microfono e abbandonato l’aula.
Nel tempo ho capito che non intendeva mostri d’insensibilità bensì mostri d’ignoranza.
Il Melodramma è un genere vero e proprio, con le sue regole fisse, se vogliamo stereotipate, che poco si cura di sfiorare il ridicolo. Come ad un’equazione possiamo riferire le medesime regole a prodotti come “Una sera d’ottobre”. Prendiamo una ragazza, bella e sana, aggiungiamo l’ingrediente che non può mancare: le care vecchie gerarchie sociali, gerarchie da infrangere a causa di un amore per un poveraccio tanto bello quanto sfigato. Mettiamoci un fidanzato in carica ricco, pettinato e noioso e il gioco è fatto.
Insomma, non è che non si notino le miserie della sceneggiatura, la prevedibilità di ogni accadimento, la totale piattezza della psicologia dei personaggi e l’irrealtà del tutto. Ma doveva essere così per forza. Perché il genere era dichiarato in partenza, la scelta stessa degli attori pescati a mani basse dall’ex cast che fu di Vivere parlava chiaro.
In Italia il Melò funziona, ha sempre funzionato: sarà populista, sarà banale, sarà catartico, però funziona. Senza contare che a Giuseppe Verdi è quasi totalmente dedicato il museo della Scala, ripeto museo della Scala non museo di Jean Paul er Mortazzaro.
Chi va a vedere un horror sa che ci sono certe regole, se si cura della verosimiglianza sta fresco.
Lo stesso vale per il Melò.
E sapete cosa penso fino in fondo? Non credo che tutta la gente che ha seguito avvinta, magari anche divertita, la serie in questione non sappia che esistano anche Dovstojeskij, Ejsenstein, Altman, Tatì, Ibsen e compagnia bella. Soltanto che, quella sera, ci stava così bene un po’ di rassicurante, facile, ridicolo Melò.